Sechieiz e Cuel dal Pez dal sentiero Batt. Gemona
La guida degli alpinisti triestini Dario Marini e Mario Galli sulle Giulie Occidentali pubblicata nel 1983 non è solo alpinistica ma ci racconta anche gli avvenimenti storici di queste montagne situate al confine linguistico nonché politico fra Italia Slovenia e Austria, ne approfittiamo per questa gita nei monti di Malborghetto, la catena lunga una dozzina di chilometri che si estende fra la valle del Fella e quella di Dogna. Da questo ultimo abitato una strada ora tutta asfaltata sale sulla destra orografica del torrente fino alla sella Sompdogna, ci fermiamo a Chiut (865m) dove a sinistra si vedono i resti della stazione della bellica teleferica del Cuel de la Bareta parcheggiando nei pressi. Il primo obiettivo è sella Bieliga, 1479 m, il largo valico più agevole fra le due vallate (dove ero transitato per la prima volta facendo la naia nel nevoso 1965 con un’avventurosa discesa a Malborghetto). Ci si arriva con una noiosa forestale tutta nel bosco in un paio d’ore. Al passo si interseca il Sentiero del Battaglione Gemona ripristinato nel 1973 dagli alpini seguendo il tracciato della strada militare del 1916, prima invaso dai mughi o franato.
Dalla tabella ci dirigiamo verso est, il primo tratto si inoltra pittorescamente in un versante di friabili rocce sotto la cima O del Sechieiz. Una prima interruzione si supera con un ponticello di tronchi indi ci si cala con l’aiuto di un cavo in un canale (il ponticello citato nella guida è crollato), poi si risale a una cengia protetta anch’essa da una corda metallica, superata questa il percorso, ora fra i mughi, diventa più agevole. Dimenticavo i compagni, ci sono gli inseparabili coniugi Turco e l’immarcescibile Mauro, il meteo è abbastanza positivo per la stagione pur qualche velatura, anche se siamo al 30 Dicembre la neve non è presente. Traversiamo ora alla base della Cima Est che a mio parere dovrebbe essere la meno elevata che quota 1839 m. La barriera dei mughi sembra impenetrabile fino a quando non appare lo spiraglio sotto la forma di un canaletto roccioso che la moglie dell’amico si rifiuta di affrontare, la spediamo verso la forcella mentre noi arditi ci alziamo. La salita non è del tutto malvagia, un misto di calcare di solidità alquanto dubbia che si abbina ai mughi di età veneranda ci deposita in cima, anch’essa invasa dai baranci. La discesa avviene lungo la cresta orientale, labili tracce nell’oceano vegetale ci portano alla forcella Cuel Taront(1735m) dove aspetta la dama dell’amico. Anche qui molti resti di opere militari, ma è il momento di rifocillarsi, salta fuori da uno zaino anche un flacone di grappa, per una volta facciamo un’eccezione, la consumiamo prima del raggiungimento dell’obiettivo principale che è poi il dirimpettaio Cuel dai Pez di 1943 m. Andiamo avanti sul sentiero ma per poco, lo tralasciamo per gli invitanti pendii innevati del versante NO, un’invernale senza neve che invernale è? La compagna di Vigjut non può fare altro che seguirci imprecando, peraltro amorevolmente assistita non dal marito ma dal Maurin sghignazzante. Il manto bianco è in condizioni accettabili e in breve superiamo il centinaio di metri che mancano per la seconda cima della giornata. Bello il panorama, d’altronde simile alla meta precedente, per tracce ci caliamo poi a Sud di nuovo al sentiero. Nei pressi scende a valle il sentiero del Rio Budic, non segnato ma evidente, tracciato nel 1916 dalla 269 Compagnia degli Alpini (che era poi quella in cui ho prestato servizio) che esce sulla rotabile a monte del parcheggio. Visto che nel 2007 ero ancora in forma mi offro di andare a recuperare la vettura e scendo al galoppo, con un colpo di c. come metto piede sulla strada arriva un auto, al volante c’è Ezio, un mio istruttore del corso che mi evita ulteriori fatiche. 6 ore e mezza.
Monte Buscada (2106m) e La Palazza (2210m) – due gite in Val Zemola
Il primo rischioso tentativo
Dalla cima del Duranno a racchiudere la Val Zemola si diramano due dorsali con varie elevazioni interessanti, nella più orientale che precipita verso la Valle del Piave con dislivelli mostruosi è compresa anche la Palazza, situata fra il monte Zita e il Borgà. Ci approssimiamo da Erto salendo la Valle del Cellina, da Montereale, dopo il passo di S. Osvaldo si cala fino alla terra natia di Mauro Corona, eclettico personaggio, scrittore, scultore e anche alpinista. Dal paese una strada, in quegli anni sterrata, rimonta arditamente la destra orografica del torrente. La percorriamo con sprezzo del pericolo e delle sanzioni pecuniarie(il divieto era poco a monte dell’abitato) fino a dove ci ferma la neve che abbonda, d’altronde siamo quasi a metà febbraio, pressappoco a 900 m di quota. Alternative alla rotabile che sale fino alla cava del Ramello Rosso non ce ne sono e dobbiamo sorbircela tutta compresa la galleria dal fondo ghiacciato e con stalattiti (o stalagmiti?) incombenti sopra le nostre preziose teste. Prima del ricovero dei minatori viene abbandonata a favore dei pendii nevosi che scendono dall’anticima o monte Buscada che si salgono senza itinerario obbligato, lo facciamo in parte sulla cresta spartiacque con qualche divagazione in versante Zemola affacciandoci alla profonda valle del Piave e ai colossi dolomitici, il cielo velato non pregiudica la visibilità. Si scende ora in pochi metri alla sella con la cima principale, qui la normale traversa a sinistra sotto le pance di calcare, probabilmente nella bella stagione si trova una traccia, al momento si presenta come una crestina nevosa sopra l’imbuto che precipita verso gli abissi della valle del fiume sacro alla patria. Tocca a me, che dovrei essere il più esperto provarci. M’inoltro in essa tenendomi per quanto posso alle rocce, dopo una decina di metri sento un fruscio sinistro, è la neve che se ne va e rimango attaccato alla parete. Per fortuna abbiamo un pezzo di corda che dopo qualche tentativo riesco a prendere. Riabbracciati i compagni si conviene a buona ragione di desistere. Torniamo alla strada, prima della galleria optiamo per la discesa diretta visto che abbiamo la cavezza che viene di nuovo usata nel primo tratto piuttosto ripido.
Alla vetta dal versante Est
Un paio d’anni dopo ci riprovo con altri in una giornata ventosa e gelida ma con scarso innevamento. La salita non può avere la qualifica di invernale, siamo nella prima settimana di dicembre e anche la compagnia è diversa, l’approccio è lo stesso solo che dalla sella per evitare il traverso ci spostiamo per tracce di sentiero in versante Est, attrezzati di corde e cianfrusaglie varie. Qui ci alziamo senza via obbligata superando qualche solido passaggio roccioso (valutabile sul 2°) che si alterna alle consuete baruffe con i mughi fino ad uscire per verdi alla cresta e quindi in breve alla sommità che si rivela abbastanza vasta come d’altronde il panorama. Scendiamo più o meno lungo la via di salita facendo tarzaning con la corda, assistendo infine a uno spettacolare tramonto sul Duranno.
Il Grop Coral Givjano in trasferta a Pieve di Zoldo
Da più un quarto di secolo mia moglie, pur non essendo carnica, canta nel coro di Givigliana, la più elevata frazione quasi disabitata del comune di Rigolato nel canale di Gorto o Val Degano. Il friulano di questa zona piuttosto limitata è caratterizzato dalla declinazione femminile con la O (La cjaso, la gjalino ecc) e il gruppo fu fondato anni prima da alcuni nativi residenti a Udine e dintorni per mantenere le tradizioni orali del canto corale religioso e popolare che altrimenti sarebbero andate perse. Opera meritevole continuata anche grazie all’opera appassionata del coltissimo maestro che di professione fa l’astrofisico . Per la trasferta in val di Zoldo vengono noleggiati due mini pullman da 28 posti, il percorso scelto è quello della val Cellina. Dopo l’immancabile fermata alla diga del Vajont dove i Carnici Doc al contrario di me non sono mai passati. Scendiamo a Longarone per poi salire a Forno di Zoldo dove si arriva nel pomeriggio, la giornata è pessima, fredda e con cielo coperto e mancano alcune ore al concerto che si trascorrono alquanto noiosamente. Al calare della sera si sale alla sovrastante Pieve mentre comincia a nevicare copiosamente rendendo l’ambiente molto suggestivo, la Chiesa risale al quattrocento, all’esterno è un semplice edificio rettangolare con tetto acuto affiancato da un alto campanile. All’interno, molto bello sono conservate alcune pregevoli opere artistiche dello stesso periodo. Passiamo al concerto, i canti sono per la maggior parte religiosi o comunque tristi cui si alternano letture di brani delle opere di Padre Turoldo e la serata riscuote un buon successo. Segue il rinfresco veloce, i nostri autisti sono a ragione piuttosto preoccupati, scendiamo dietro lo spazzaneve fino a Longarone, viene scartata la Vacellina per Vittorio Veneto dove la neve si trasforma in pioggia. Arriviamo a Udine ben dopo mezzanotte.
Monte Cogliàns (2780 m), la gloriosa invernale
Il punto di partenza più comodo per salire la cima più alta delle Alpi Carniche è il rifugio Tolazzi 1370 m dove arriva l’asfalto (Tolmezzo-Villa Santina-Forni Avoltri-Collina). Ho visto sul sito che qualche lettore ha chiesto informazioni sull’invernale al Cogliàns e mi tocca rispondere. Lasciando da parte una gita invernale fantozziana dell’81 fino al rif. Marinelli, preistoria quindi, in vetta ci sono arrivato quattro volte prima per la via comune, a seguire la via ferrata da N e quindi la traversata dal Lastrons del Lago. L’ultima è stata nel nevoso gennaio del 97 con l’amico Sandro, uno dei pochi compagni fissi di quegli anni.
Dopo Collina la strada è innevata ma proseguiamo comunque verso il rifugio sui solchi lasciati da altri mezzi, quasi ci arriviamo, sull’ultima rampa la fida Astra ci tradisce e prima si arresta poi comincia a scivolare sul ghiaccio verso valle e invito il compare a saltare giù ma decide di condividere il mio destino. Intelligentemente il mezzo anche all’indietro riesce a tenersi sulle tracce che come due binari ci conducono fino allo Staipo di Canobio un bel po’ più in basso, dopo una decina di minuti ci riprendiamo dal terrore, si poteva finire ingloriosamente nel rio sottostante, partiamo da qui anche se il già cospicuo dislivello aumenta di un centinaio di metri. Raggiunto il rifugio proseguiamo sulla strada di destra e faticosamente giungiamo fino alla Casera Moraret, circa 1700 m, il morale è grigio come il cielo che ci sovrasta, con questa neve non si arriva da nessuna parte, decidiamo di spostarci verso destra entrando nella valle del Ploto rinserrata fra le propaggini del Pic Chiadin e il Costone Stella. Qui le cose migliorano, il manto nevoso sostiene abbastanza, tanto che dopo un po’ calziamo anche i ramponi e appare anche un pallido sole. Il tratto finale della via normale ci pare troppo carico di neve, l’incognita è sempre quella, terrà o no? Nel dubbio continuiamo stando nel vallone mirando alla forcella (2705 m) fra la vetta e l’anteriore Est che ne quota 2751. Per arrivarci sudiamo abbondantemente nella neve polverosa, qui prendiamo la cresta Est, stretta, ripida e con qualche roccione affiorante all’inizio che poi si appoggia diventando quasi comoda. Andiamo avanti stando a rispettosa distanza dalle enormi cornici sporgenti sul versante N, ringalluzziti dall’avvistamento della Croce di Vetta. Fa un freddo polare anche se ora il cielo è quasi sereno, ma la vista dalla cima a giro d’orizzonte e nella limpidezza invernale è, oserei dire, meraviglioso. La sosta è per forza di cose breve, non vagheggiamo certo di rifare percorso dell’andata e andiamo a esplorare la via comune, i segni sono spariti sotto la neve e tracce non ne troviamo, tuttavia i ramponi tengono bene sul ripido grazie alla neve molto buona. Scendiamo prudentemente con la solita logica alpinistica al fondo del vallone, qui riprendiamo le nostre tracce, non resta altro che seguirle fino alla base di partenza.
26 Gennaio, cinque ore in salita, tre in discesa, 1500 m il dislivello.
Cuestalta (2198 m) per il dorso Sud
Il problema più grosso delle invernali è quello di trovare il momento giusto, errando ci si può imbattere in neve pericolosa, oppure profonda e non c’è una regola precisa perchè le incognite sono troppe e qualche fallimento capita sempre, la cosa più importante rimane quella di tornare a casa, non mi sento di dare ulteriori consigli anche se negli anni ho corso qualche rischio. Ora la gita. Per celebrare il primo dell’anno ero stato con due amici sulla bella cresta Ovest dello Zermula ( chi vuole può andare a vedere il post) prima di entrare nella nebbia avevo adocchiato il Cuestalta, che non avevo mai visitato, la dorsale Sud mi era apparsa come un possibile obiettivo invernale e ho dato un’occhiata alla guida. Il responso è stato “facile ma non segnata” e un paio di settimane dopo ci muoviamo per l’attacco, non ci sono state ulteriori precipitazioni e la strada che da Paularo sale verso il Cason di Lanza dovrebbe essere ancora percorribile almeno fino alla casera Ramaz, 1057 m, da dove si diparte la salita. Così è, ben sei sono i partecipanti e il tempo è ideale anche se freddo. Alle spalle della malga a sinistra inizia il sentiero (credo sia il 448, non trovo più la carta) che traversa lungamente a sinistra fino all’abbandonata casera Pecol di Chiaula, poco più avanti si trova l’attacco della cresta, subito innevata. Per poco bisogna destreggiarsi fra la vegetazione che ben presto finisce, il crinale non è ripido e consente di ammirare lo stupendo panorama che si apre guadagnando quota, la neve tiene abbastanza ma non è ghiacciata. Rimontiamo tutto il crinale fino ad affacciarci al versante austriaco poi traversiamo a destra prima sul filo poi sotto l’anticima. Sotto questa la pendenza aumenta in modo considerevole e la piccozza si rivela necessaria. Per arrivare alla croce di vetta come ultimo ostacolo troviamo una crestina abbastanza affilata, il premio finale è lo strepitosa quanto nitida vista che a 360° che va dalle Giulie Alle Dolomiti, tutte le Carniche, i monti austriaci e per finire la pianura friulana. Spira un’arietta niente male e non è il caso di protrarre la sosta anche pensando al ritorno che è abbastanza lungo. Scendiamo lungo le tracce lasciate, solo il Mauro opta, anche se sconsigliato, per i pendii di sinistra (Est). Fatto sta che quando arriviamo a Ramaz non è presente, dobbiamo aspettarlo per un paio d’ore alquanto preoccupati, quando si presenta afferma di essersi fermato a fare un pisolino (o si è perso), tiriamo comunque un sospiro di sollievo, se non altro si presenta incolume però deve accettare i nostri improperi.
18 Gennaio 1998, con Gigi, Eliana, Sandrin e Sandron e il già nominato dissidente, sette ore e mezza, più di 1100 di dislivello.
Valaràz e Célo, ai margini del gruppo della Schiara
Con la cresta del Zélo o Célo termina poco gloriosamente a NO il gruppo della Schiara, dal fondo valle del Cordevole nei pressi di Agordo curva a NE fino alla forcella Moschesin, confine con il Tamer-S. Sebastiano, a oriente la selvaggia Val Clusa dove precipitano repulsive balze erbose e dirupi, gli accessi migliori sono dalla rotabile che sale al passo Duran, su questi versanti più appoggiati e boscosi si può usufruire delle vetuste tracce dell’attività pastorale e militare. Le quote più elevate superano di poco i 2000 m e qualcuno potrebbe anche chiedermi che cavolo ci sono andato a fare con tutto il ben di Dio che si trova in Dolomiti. Ai posteri l’ardua sentenza.
Affronto la lunga trasferta con Mauro via Belluno-Agordo e strada del Passo Duran fino a La Valle Agordina, qui si può proseguire a destra fino all’abitato di Conaggia circa 850m, dove si abbandona il mezzo meccanico. Una strada a fondo naturale prosegue ancora verso Sud che dopo una casera ristrutturata diventa mulattiera. Qui cominciano i dolori sotto forma di un abbondante spessore di neve e fatichiamo non poco per arrivare alla forcella Folega che quota 1547 m, anche il meteo non è dalla nostra parte, non che sia pessimo ma il sole non si decide a venire fuori e accantoniamo il progetto del Zèlo tutto in ombra per il Valaràz, 1883 m, dirigendoci verso N. Fino alla dorsale è tutto bosco ma da questa ci si affaccia ai precipizi che scendono alla Val Clusa oltre che agli inusuali scorci su Pale, Monti del Sole, Talvena e Dolomiti di Zoldo. Tenendoci a distanza di rispetto dai dirupi arriviamo alla meta di ripiego in 3 ore e mezza. Mentre stiamo scendendo il tempo cambia e al pomeriggio diventa esemplare, recuperata l’auto variamo il ritorno salendo al Duran, in discesa a Zoldo assistiamo a un tramonto in technicolor. 25 gennaio 1998.
Ci riprovo il novembre dello stesso anno con un giovane discepolo a nome Lorenzo, altri amici si defilano dal momento che in Friuli piove, la teoria dei vecchi alpinisti è che si parte con qualsiasi tempo, un’osteria per ripararsi si trova sempre. L’avvicinamento è lo stesso della gita precedente. Neve non ce n’è, in compenso troviamo un bel nebbione. Dalla forcella Pongol che quota come la vicina Folega ci dirigiamo verso Sud fra mughi ingentiliti dalla brina e lastronate rocciose stando ben attenti ai segni, la vetta del Zelo (2083 m) è contrassegnata solo da un umile bastone, ci arriviamo inaspettatamente in meno di tre ore. Dopo un’attesa di quasi un ora le nebbie si diradano e ci trasferiamo seguendo la panoramicissima cresta ancora sul Valaràz. 6 ore mezza in tutto, le difficoltà tutto sommato sono alla portata del medio escursionista.
Bibl. Piero Rossi, Schiara ed. CAI-TCI
Punta Vallero, sui sentieri della grande guerra
Dal Monte Nero o più correttamente Krn una catena di monti si eleva ancora verso NNO con quote decrescenti fino all’Isonzo, è la cresta del Vrata (porta, dalla più evidente insellatura), fra la val Lepenje a Est e la contrapposta gola del Rio Slatenik che dopo il passo Mali Homes scende all’altopiano di Dresnica. Nel primo conflitto mondiale su queste montagne infuriarono i combattimenti e una cima fu dedicata nel ventennio al sottotenente Vallero che qui sacrificò la sua giovane vita. Numerosi sono i resti di trincee e postazioni come di mulattiere costruite per arrivare alle stesse che al tempo presente servono ancora per raggiungere le varie cime della dorsale, la prima gita in loco è stata questa del Gennaio 1999. Scarsa la documentazione in nostro possesso, una cartina al 100.000 della Freytag e Berndt più qualche notizia trovata sulla guida della SAF “Gorizia e le valli dell’Isonzo e del Vipacco” che risale agli anni 30, non ci sono comunque problemi di orientamento.
Da Caporetto (Kobarid) valicato l’Isonzo sul ponte di Napoleone saliamo all’altopiano, prima di arrivare alla località maggiore, Dresenza appunto, si svolta a sinistra in direzione del paesello nomato Ravne, 617 m. Si potrebbe proseguire ancora, la strada di destra non ha divieti (in seguito sono andato una volta in auto fino alla malga), con un primo tratto su asfalto e poi bianca ma con l’innevamento non è il caso di cercare notte e ce la sorbiamo tutta a piedi fino alla radura della Planina Zaplecam, 1200 m da dove, e proprio di fronte, anche se innevate si vedono le lunghe diagonali della mulattiera militare che salgono all’insellatura della Vrata, quota 1938. Ci arriviamo faticosamente dato che occorre fare la traccia e sono già 1300 m di dislivello, ci aspettano gelide folate di bora e saltuari banchi di nebbia. Dopo aver indossato tutto il disponibile proseguiamo sulla facile dorsale che verso settentrione arriva a un salto, d’estate si potrebbe continuare sui resti dei camminamenti bellici fino al visibile Vrsic 1897m, per la carta tedesca siamo sull’Oblo Brdo, 1980m che rimane la più elevata a N della forcella. Non ci dilunghiamo oltre, siamo già semicongelati e torniamo alla forcella, troviamo riparo presso una caverna, sopra l’ingresso resiste la targa solo in parte leggibile dedicata al tenente Vallero. Il clima nel frattempo è migliorato, ci spostiamo verso Est alla cima che ci sovrasta che dovrebbe (il condizionale è obbligato) essere proprio la Punta Vallero o monte Vrata, 2014 m, vastissima la vista sul gruppo del Monte Nero e le Giulie Orientali. Qui termina la gita dei tre fedeli compagni. A S, in direzione del Krn, la cresta prosegue più alta, decido andare sulla prima di 2112 m ma senza nome. Ci arrivo per un erto pendio innevato con qualche patema d’animo, da qui osservo la continuazione verso la sommità più alta dall’impronunciabile nome Krnicica che sembrerebbe potabile ma non oggi vista l’ora già tarda. Scendendo vedo i proverbiali sorci verdi, dall’alto sembra tutto verticale, tiro un sospirone all’incontro con gli altri. In discesa tagliamo i tornanti della mulattiera accorciando la via, Hermann che si è someggiato un paio di vecchi sci azzarda qualche curva, ma la neve non trasformata non lo favorisce e viene riacciuffato. L’incendio del tramonto ci favorisce fino al parcheggio dove arriviamo agli ultimi bagliori.
Il nominato sci-alpinista, Gigi con Eliana.