Stenar (2501 m) – l’anello dalla val Vrata
La Cima si trova ai margini orientali dell’altopiano Kriski Podi, dalla valle dell’Isonzo si presenta come un ardito corno che sovrasta il rifugio Pogacnik,anch’esso visibile ed espone una imponente parete alta 700 m verso la Valle Vrata dove sono state aperte delle dure arrampicate mentre la via normale del versante O è facile e anche breve se si pernotta al rifugio spezzando così l’impegno fisico in due giorni (1700 m il disl. partendo dalla Val Trenta). Per la nostra salita preferiamo il più relativamente comodo approccio dal rifugio Aljaz in Vrata ove si arriva dal paese di Mojstrana con una sterrata, divieto e parcheggio a pagamento poco prima, circa 1000 m la quota, rimangono quindi da superare pur sempre altri 1500. Ho ben tre badanti impersonati da tre miei giovani concittadini che saltuariamente mi accompagnano fra i monti, forse fidando nella mia scarsa saggezza. Il sentiero segnato con varie tabelle esplicative si dirama verso N passando accanto a una chiesetta, forse affascinati dalla bellezza dei boschi delle Giulie ne imbocchiamo un altro non segnato dove perdiamo quasi un’oretta prima di recedere e tornare al punto di partenza, trovato l’imbocco cominciamo subito a salire verso il Bivacco IV dove il bosco si dirada ma non la nebbia che continua a perseguitarci, anche le previsioni per oggi non erano molto favorevoli. In verità la meta agognata non era neanche lo Stenar ma la Skrlatica o Scarlatizza più alta di buoni 250 m nonché più lontana, purtroppo il bivio a sinistra per la cima di ripiego l’avevamo superato da un bel pezzo ma sul retro della costruzione vediamo una traccia che si dirige a Ovest e cominciamo a seguirla inoltrandoci in un bel mondo minerale di bianchissime placche calcaree guidati da rari ometti. La costanza viene premiata, alla fine ci affacciamo al ripido canalone detritico e nevoso che ha la sua origine alla Stenarska Vratca, intaglio fra Kriz e Stenar da dove Nonno Giulio fece la più lunga scivolata della sua vita. Lo rimontiamo faticosamente seguendo le tracce sulle ghiaie, l’ultimo tratto è di roccia rossastra di passabile qualità (non segnato). Dalla forcella (2295 m) si sale in versante Ovest per ghiaie e tratti rocciosi con percorso evidente fino alla cresta della vetta. Solo qualche suggestivo squarcio fra le nubi ci fa intuire il bel paesaggio, una breve sosta e ripartiamo. Torniamo nei pressi della sella, da qui ci caliamo sempre in versante Ovest alla Sella Sovatna, 2180 m, lasciamo sulla destra il sentiero del Rifugio Pogacnik per scendere a Sud il lungo vallone della Civetta (tale è la traduzione del toponimo), al inizio roccioso e con qualche attrezzatura, in seguito detritico. Quando entriamo nel bosco la traccia traversa a sinistra ricongiungedosi al sentiero di fondovalle poco prima del monumento ai partigiani/alpinisti. Per il giro completo circa otto ore (compresa la variante iniziale). Agosto 2010.
Cervino – Traversata Cresta del Leone-Cresta dell’Hornli
Il Cervino (4478 m) è unanimamente riconosciuta come una delle più belle montagne del mondo e probabilmente la più attraente delle Alpi e sulla storia della sua conquista sono state scritte montagne di libri e una moltitudine di alpinisti si cimentano ogni estate sulle creste delle vie normali, la Cresta del Leone dall’Italia e quella dell’Hornli dalla Svizzera entrambe di difficoltà AD, con alterne fortune. Queste mie note rimandano alla mia salita dell’Agosto 1991 e non sono una relazione, ora con Internet penso se ne troveranno parecchie abbastanza, molto o troppo dettagliate.
Primo Giorno: trasferimento e salita al Rifugio Carrel
Quando nel estate del ’91 paleso ai soliti amici la mia idea di passare la solita settimana alpinistica in Valle d’Aosta il più giovane mi risponde che il Cervino lo tiene da parte per quando sarà più vecchio, con i miei 50 alle porte penso che l’ora sia già giunta, d’altronde ho già un compagno, il Mauro. Si aggiunge all’ultimo momento un’altra coppia di alpinisti che conosco pur non avendo mai fatto una salita assieme a loro, d’altronde il nostro programma prevede anche l’attraversamento di ghiacciai per la sicurezza quattro è il numero giusto. M. comunque insiste che è preferibile usare due macchine visto che c’è parecchio materiale da portare e gli eventi successivi dimostreranno la sua lungimiranza. Partendo al buio a mezzogiorno facciamo il nostro ingresso a Cervinia, rendiamo omaggio al monumento a Carrel, primo salitore della Cresta del Leone e secondo in assoluto dopo Whymper della gran becca che, pur non avendo da qui l’eleganza dell’opposta vista Svizzera, ci fa una certa impressione. La quota della cittadina è di 2000 m, in mezz’ora siamo pronti, una mezza corda, casco piccozza e ramponi, qualche cordino e moschettone più una fotocopia molto laconica tratta dal volume “Le Alpi Pennine, le 100 più belle” dello svizzero M. Vaucher sono la nostra attrezzatura. Partiamo sotto il sole che picchia anche quassù, la perturbazione appena passata ci assicura una finestra di bel tempo (durerà 4 giorni), ora ci aspettano 1800 m di dislivello da coprire per il Bivacco-Rifugio Carrel che quota 3835 m. Le prime due ore ci servono per arrivare al Rifugio Duca degli Abruzzi all’Oriondè e sono già 800 m saliti (pare ci sia anche un servizio di fuoristrada, si poteva altresì profittare della funivia, cose che nella nostra ignoranza non sapevamo) con percorso abbastanza comodo. Qui accade il fattaccio, a uno degli amici cedono i nervi e non se la sente di continuare, torna indietro con il suo partner, ci diamo un improbabile appuntamento al Rifugio Torino in Bianco, per quando non si sa, e rimaniamo in due. La salita è segnata con bollini e ometti e si svolge fra detriti canali e salti di roccia dove non riteniamo di usare la corda, il passaggio più impegnativo è un diedro attrezzato con una catena. Verso l’alto incrociamo un terzetto di conoscenti dell’amico, pernottando all’Ariondè si sono aggiudicati la vetta in due giorni viaggio compreso con una notevole performance anche se non hanno goduto del tempo migliore, anche oggi resiste qualche banco di nuvole. Quando dalle ultime placche ci appare il rifugio nel tardo pomeriggio siamo allo stremo, è piuttosto affollato e le Guide presenti, oltre a riscuotere il dovuto (15.000 lirette) si danno da fare per ristorare tutti i presenti.
Secondo giorno: la traversata
Notte quasi insonne per me ammassati come sarde in scatola, l’amico invece pare non si voglia più svegliare e siamo fra gli ultimi a partire verso le 6.30, alla corda della sveglia ci rendiamo conto che oggi non sarà un’impresa facile, le gambe provate dalla fatica del giorno prima non vogliono muoversi, la scarsa acclimatazione fa il resto, per contro la giornata è meravigliosa. Andiamo avanti in parte a comando alternato il resto di conserva, la cresta che originariamente aveva passaggi fino al IV è parzialmente addomesticata da anelli e canaponi nei tratti più impegnativi discostandosi in parte dalla Via dei primi salitori e con buona visibilità non ha grossi problemi di orientamento. Si sale superando tutta una serie di classici passaggi, dapprima si aggira la Gran Torre, il Linceul (Lenzuolo di ghiaccio) è molto ridotto, segue la Gran Corda, si attraversa una cengia arrivando poi sul Pic Tyndall e siamo a 4240 m. Segue la cresta verso la torre della cima con l’Enjambè, un profondo intaglio dopo di che si attacca la piramide sommitale, la Scala Jordan permette di salire un tratto strapiombante, ancora un paio di corde e usciamo alla vetta italiana, all’intaglio sottostante si trova la Croce di Vetta e dopo una cresta nevosa la cima svizzera, la più alta e saliamo anche questa per quel che valgono due metri. Ci abbiamo messo un’eternità, otto ore e mezza per poco più di ottocento metri di dislivello, non tanto per le difficoltà a quei tempi alla nostra portata ma per la quota, tuttavia ne è valsa la pena, vediamo che anche fra le altre cordate presenti ci sono parecchi alpinisti malmessi come noi. Affrontiamo la discesa, il rifugio dell’Hornli 1200 m più in basso ci appare come un lontano miraggio, all’inizio le corde permettono di superare degli espostissimi pendii nevosi dove calziamo i ramponi, anche in seguito ci sono degli altri chiodi, passiamo vicino alla Capanna Solvay e continuiamo prudentemente sulla destra della cresta senza discostarci troppo, la roccia è peggiore che sulla Cresta Italiana comunque meglio del previsto orientati dai graffi lasciati dai ramponi, facciamo anche un’unica corda doppia, seguono dei tratti molto esposti e piano piano l’ambiente si addolcisce, quando arriviamo sulle pietraie sotto al rifugio possiamo finalmente respirare: è andata. Sono quasi le 9 quando bussiamo metaforicamente all’uscio dell’ostello chiedendo ospitalità che ci viene negata, sono strapieni, ci consigliano il vicino, a dir loro, Hotel dello Scwarzsee, 2584 m., quasi 700 m per grazia con un sentiero ben tracciato sulla morena. E’ semideserto, ci viene assegnata una cameretta con due letti e bagno…prima di tutto ci laviamo, lusso inestimabile a queste quote, dopo aver cenato finalmente riusciamo a distendere le provate membra.
Terzo giorno: rientro a Cervinia e trasferimento al rifugio Torino
Prima di colazione assistiamo a uno spettacolare alba, per il seguito della giornata Mauro vorrebbe traversare a piedi fino al Plateau Rosa, mi oppongo strenuamente e vinco: scendiamo dalla vicina stazione in funivia a Zermatt, saliamo con altro impianto a fune fino al Piccolo Cervino. La pista di sci ci fa scendere rilassatamente agli impianti italiani del Rosa e con questi a Cervinia. Recuperato il mezzo ci trasferiamo a La Palud da dove con la funivia del Monte Bianco saliamo al Rifugio Torino che ci farà da base per i prossimi giorni. Giornata molto dispendiosa ma oltremodo rilassante.
Ago di Villaco (2050 m) – Lo spigolo Sud e la Via di Piussi
Spigolo Sud – Dal III al IV+
Con le Cime Castrein e la sottostante forcella del Lavinal dal Ors termina a occidente il Gruppo dello Jof Fuart, fra questa Cima e la Forcella Mosè una cresta si spinge in direzione SE comprendendo due vette di interesse alpinistico, il Campanile e l’Ago di Villaco. Quest’ultimo sovrasta il sentiero proveniente da Sella Nevea per il Passo degli Scalini diretto al Rifugio Corsi in forma di bianchissimo e appuntito obelisco. La prima salita (che risale ai tempi della Grande Guerra) alla vergine vetta si deve agli alpinisti austriaci H. Klug e H. Stagl, come pure è loro appannaggio la via dello Spigolo Sud. Per la nostra ripetizione partiamo da Sella Nevea e precisamente dalla Caserma della Finanza circa 1200 m dove inizia il sentiero 625 che sale nel bosco alla Casera Cregnedul di sopra, esce in terreno aperto per valicare il passo degli Scalini (dov’è sovente incontrare qualche vipera che esce dalla rigogliose erbe a prendere il sole) fra belle fioriture, traversa il Lavinal dal Ors. Dalla larga cengia sotto la strapiombante parete delle gocce appare all’ improvviso la guglia dell’Ago. Cordata mista oggi, mi farà da secondo una vecchia conoscenza che rappresenta il gentil sesso a rispetto delle pari opportunità. La salita è breve, solo 120 m di dislivello, come per la Via Normale si attacca in un canale a sinistra dello spigolo, si sale a un sasso incastrato, qui si esce a destra in parete proseguendo fino allo strapiombo con fessura dove si trovano alcuni chiodi, qui incontriamo un paio di vecchie conoscenze che hanno fatto tutta la trafila, dal alpinismo giovanile al corso di Alpinismo che ora si cimentano nelle prime scalate autonome. Dopo la strapiombo la via prosegue meno impegnativa ma sempre su roccia ottima sullo spigolo fino alla ristretta vetta. La discesa la facciamo tutta a corde doppie, la prima molto aerea, tutta in versante Sud. I due giovani sono partiti dal Corsi, dove aspetta il resto della compagnia, elemosino spudoratamente un passaggio per risalire a Nevea così al rifugio possiamo celebrare adeguatamente l’impresa compiuta. Luglio 1991, due ore in salita per la via.
Via L. Bulfon-I. Piussi – Dal IV+ al VI- e traversata al Campanile di Villaco (2247 m) per la via Weiss
Qualche anno dopo torniamo al Corsi, salendoci questa volta dalla Val Rio del Lago e in compagnia piuttosto numerosa, il programma prevede la salita del Campanile di Villaco per la via Weiss in parete Est, III e IV, solo che del gruppo fa parte il solito e famigerato M. che mi scassa i cabasisi con questa via tanto che alla fine acconsento a condizione che si faccia da primo il tiro iniziale più difficile. Lascio giù tutto, macchina fotografica compresa, e ci trasferiamo alla base dell’anticima N dell’Ago sotto il diedro d’attacco cui segue un’aerea traversata. Da secondo riesco a farcela senza farmi tirare su di peso, il secondo tiro spetta a me, è in fessura mentre il conclusivo, che si sposta a destra per uscire verticalmente sull’anticima lo conduce ancora il compagno. A conclusione decidiamo di continuare verso il Campanile, percorsa la crestina verso N arriviamo al intaglio con la cima maggiore dove ci raccordiamo con la via Weiss che ci sembra più facile del IV promesso, un tratto piuttosto facile ci porta a una scura parete e senza troppi patimenti ci ricongiungiamo agli altri. La discesa si svolge verso il Lavinal dal Ors,quindi verso O, max II, siamo tutti abbastanza sicuri tanto che ci caliamo senza l’uso della corda. Quando arriviamo al sentiero comincia a piovere così ci rinfreschiamo le membra accaldate. All’arrivo nel vallone aiutiamo i soccorritori a trasportare la barella s di una signora che si è rotta una gamba, scendendo riappare di nuovo il sole. Luglio 1998, 2 ore e mezza dal attacco al Campanile.
Puntuali relazioni si trovano su “Le Alpi Giulie” di Gino Buscaini ed CAI-TCI
Monte Siera (2443 m) – Due impegnative traversate
Il Canalone Ovest
La più bella visione della montagna si ha da Cima Sappada, un bel triangolone roccioso affiancato a sinistra dal canalone Nord mentre la Via Normale rimane esattamente nell’opposto versante, per l’avvicinamento ci si sposta ancora verso Est (Bach o Granvilla dove un paio di strade scendono al corso del Piave che si valica su un ponte a 1198 m e dove si parcheggia. Per strada forestale e sentiero (n 316) si sale al passo Siera ( un breve passo con un cavo passamano) 1600 m da dove si sale a sinistra alla sovrastante casera Siera di Sopra. Da questa una traccia sempre a sinistra attraversa il greto di un rio per salire poi abbastanza faticosamente a una costa con larici da dove ci si inoltra nei mughi, a un bivio si lascia sulla destra il sentierino della normale per traversare nel versante opposto fino all’imbocco del canalone (bollini rossi). L’ambiente è all’inizio ristretto e opprimente (sarebbe piuttosto scomodo trovarsi qui in caso di piogge improvvise) anche se la roccia levigata dall’acqua è affidabile, si deve rimontare tutto parte sul fondo parte con opportuni spostamenti sui due lati, in un tratto particolarmente liscio troviamo uno spezzone di corda lungo qualche metro che usiamo senza remore né purismi essendo slegati. Alla fine usciamo in ambiente più aperto e finalmente rivediamo il sole, siamo a una forcella fra l’anticima NO e la vetta. C’è ancora da arrampicare, senza via obbligata procediamo verso la vetta per rocce frastagliate fino a un’ultima paretina dopo di che inaspettatamente ci sorprende la Croce della Cima. Siamo stati piuttosto veloci, sono trascorse meno di quattro ore dalla partenza. Il panorama con le nitide luci d’inizio autunno, anche se qualche nuvola ce ne nasconde una parte è diverso interessante, nessuno dei cinque partecipanti aveva mai messo piede su questa montagna. Occorre pensare subito alla discesa, ci caliamo a SE fino a un intaglio, sulla destra scende il Canalone Sud della via Comune, piuttosto impegnativo e di complesso orientamento anche se segnato (poco) a bollini rossi con varii spostamenti sui lati, un’ultima placca arriva al ponte di due tronchi che supera una spaccatura al termine delle difficoltà. Qui si seguono i segni del sentierino verso destra che riportano alla casera. 1° e 2° in salita come in discesa, 12 settembre 1993.
Il canalone Nord e la Cresta SE
Qualche anno dopo nella sosta caffè a Villa avevo proposto agli amici (quasi una gita sociale, in sette me compreso) la cima del Pleros che mi mancava ancora all’appello, sdegnosamente rifiutata da un terzetto che c’era già stato. Un conoscente che è solito trascorrere le ferie in quel di Sappada mi aveva confidato che era stato sul Siera dal canalone arrivando poi in cima per la cresta Est guidato da alpinisti locali, e un po’ sconsideratamente ne parlo con i miei compari e viene approvata anche se qualcuno è abbastanza restio. Detto e fatto, da Cima il sentiero 319 sale intersecando la pista un paio di volte con varie possibilità di perdersi (la seggiovia come il Rifugio Siera sono chiusi da anni per le note vicissitudini finanziarie, non posso dire di più) fino al detto Rifugio. Saliamo ora per verdi e detriti all’imbocco del canale, di neve ne è rimasta poca, qualche lingua di colore grigiastro qua e là alternate scomodamente a placche e detriti, poco sotto la forca Alta di Siera si biforca, optiamo per il ramo destro friabile e con massi instabili, salgo delicatamente ma un compagno ne muove uno grosso come un comodino, la tattica viene cambiata, i sopravissuti salgono uno alla volta mentre gli altri stanno al riparo. Frattanto è calato un fitto nebbione, ci aggiriamo come fantasmi fra i gendarmi rocciosi, quando si dirada leggermente ripartiamo. La cresta soffre di assoluta mancanza di segni ma non è molto impegnativa, proseguiamo aggirando i gendarmi prevalentemente sul versante di sinistra, a tratti sul filo, quando diventa più ostica stiamo ancora sul versante pesarino attraversando ancora qualche intaglio fino alla forcella della normale. Ora il meteo è più amichevole e arriviamo in cima. Tetri pensieri sulla affollano la testa di tre partecipanti poco usi a questo genere di salite, con la dovuta calma e attenzione posiamo gli scarponi sul ponticello di tronchi, uno del terzetto si gira e fa il gesto dell’ombrello alla nobile montagna affermando “Siera, mi hai visto una volta ma non mi vedrai più”. Mentre scendiamo sulla traccia elementare il solito M., già responsabile della caduta del masso adocchia una possibile scorciatoia nella mugheta e convince un altro a seguirlo, arriveranno alla casera dopo di noi pieni di graffi ma, a dir loro molto, soddisfatti. 1° e 2°, 2 Luglio 2000.
Relazioni dettagliate sul Gaberscik, Le Alpi Carniche e Rovere- Di Gallo, Alpi Carniche II del CAI-TCI
Cime della Prendera (2013-2022 m) – Com’è bella l’avventura
Vasto e selvaggio il gruppo Caserine-Cornaget resta forse il meno visitato delle Dolomiti Friulane sia per la mancanza di punti d’appoggio (oltre al rifugio della Pussa alla testata della Valle Settimana e al bivacco Goitan si aggiunge solo qualche casera ristrutturata) che per i problematici accessi alle vette pochissimi dei quali segnalati e senza difficoltà alpinistiche. Nella guida di Sergio Fradeloni, che era un esperto di questi monti, la Prendera viene consigliata quale remunerativa meta escursionistica e due anni orsono ci avevo provato finendo invece per l’opposizione del compagno sul Ciol di Sass (che ha fra l’altro maggiori difficoltà). Era da tempo che la proponevo a giovani e vecchi con scarsi risultati e mercoledì scorso ottengo l’assenso da M. che si prende un giorno di ferie e da Saro reduce da una settimana di scorpacciate nella sua Trinacria. Con la strada della Valcellina prima di arrivare a Claut e dopo il ponte sul torrente a sinistra risaliamo la semideserta Val Settimana, al di là del ponte quotato 815 m è il parcheggio tutto a nostra disposizione poco sotto la visibile casera Settefontane. Ci passiamo accanto, sulla destra inizia il nostro dismesso sentiero che scende subito nel letto del torrente per alzarsi sulla costa alberata in sin. orografica, le alte erbe presenti indicano la sua scarsa frequentazione, comunque qualche ramoscello spezzato o un ometto garantiscono l’orientamento. Si ridiscende nell’alveo destreggiandosi fra massi di varie dimensioni, cascate, rapide e pozze in ambiente molto suggestivo, più in alto dove la traccia usciva sulla destra una frana costringe a rimanere nel Ciol di Sass, quando le labili tracce svoltano sulla destra verso un ripiano con larici (dell’antica casera rimane poco o niente) a circa 1400 m di quota proseguiamo dritti verso l’ignoto. La cresta a denti di sega delle Cime della Prendera appare ora ben visibile, resta da appurare quale sia la più alta. Un tratto nel verde ci porta a un più comodo rugo con un filo d’acqua nel centro, ne usciamo verso destra salendo poi i ghiaioni discretamente comodi poi fra grossi massi a una specie di diedro fra le placche di quella che stimiamo sia la vetta e una verticale banca rocciosa. In alto tocca superare delle placche a tratto ricoperte di ghiaia dove occorre un poca d’attenzione, tre timidi camosci sulla cresta si ritirano verso Est prima della nostra uscita in forcella che precipita a S verso le Grave di Gere. Il dottore si ferma qui, uno spigoletto e delle placche ulteriori conducono alla cresta, proseguo fino alla sua estremità SE per avere la conferma che purtroppo non siamo sulla quota maggiore che appare inscalabile sopra l’intaglio ma sulla quota 2013. Dopo una breve sosta torniamo dall’amico e mi sposto per curiosità in versante Sud, una traccia di ungulati continua su una stretta cengia per scomparire al di là di uno spigolo, poco prima una placca sembra praticabile, chiamo il Mauro che accetta l’idea di provarci, superata questa un traverso a destra porta alla base di un camino con qualche sasso instabile che superiamo in opposizione, un ulteriore placchetta ed eccoci all’ometto della vetta che era assente sulla cima minore (una ventina di metri, max 2°). Ora ci tocca ridiscendere in forcella dove abbiamo lasciato zaini e compagno per intraprendere il ritorno che risulta lungo e faticoso, fatichiamo per ritrovare la traccia dell’ex sentiero (un po’ di mughi fanno sempre bene). Tempo impiegato ben 8 h 45’ con le soste, avendo anche dovuto assistere l’amico poco allenato per questo tipo di terreni, comunque il tempo della guida di 4 h è abbastanza realistico anche se difficoltà sono più alte di quanto promesso. A parte l’ometto in cima da quando si abbandona il sentiero non si incontra più alcuna traccia. 17 Luglio 2013.
Monte San Lucano (2409 m) – un’ascensione facile ma non banale
Gran parte delle cime del ramo di di San Lucano sono per la maggiore parte di accesso difficile e complicato, le uniche mete possibili al normale escursionista sono la Prima Pala dove si è accolti dal Bivacco Bedin, il più bello delle Dolomiti nonchè unico punto di appoggio del sottogruppo e al di là di Forcella Besauzega il Monte San Lucano che è anche la massima elevazione del sottogruppo. In una precedente occasione di tardo autunno ci eravamo accostati dalla Valle di San Lucano per visitare il bivacco, sulla carta era segnato a puntini rossi un sentiero che risaliva l’arcigno Boral della Besauzega fino alla forcella stessa con la ferrata Gianni Miola che ignoravamo fosse stata dismessa e i segni cancellati, ma questo l’abbiamo appreso molto tempo dopo. Ci eravamo alzati parecchio, dapprima su tracce nei ripidi pendii erbosi quindi con passaggi in roccia senza cavi o se presenti di dubbia affidabilità fino a naufragare fra cenge e mughi salvandoci per poco da uno sgradito bivacco, alla fine si giunse al parcheggio poco prima del buio. Il progettato ripristino probabilmente ora si sarà concluso, pur se il dislivello partendo da 650 m resta importante.
L’approccio più conveniente rimane quello da Pradimezzo (874 m), una frazione di Cencenighe in val Cordevole, poco prima del capoluogo una stretta asfaltata sale al paesello che non offre grandi possibilità di parcheggio. Il sentiero contrassegnato con il n. 764 rimonta a lungo la Val Torcol nel bosco in direzione SO passa dalla casera omonima ed infine esce in terreno aperto ai pascoli dell’abbandonata casera d’Ambrusogn 1700 m. Al vertice dei pascoli si vede l’intaglio della forcella della Besauzega 2131 m, ora si lascia a destra la prosecuzione del sentiero seguito finora per alzarsi sulla sinistra con il 765 che conduce al Bivacco Bedin. Poco sotto la forcella si lasciano i segni segnato per traversare destra alla detta forcella con affaccio agli insondabili abissi della Valle di San Lucano. Dall’intaglio una rampa di roccia articolata di qualche decina di m esce a un pendio di erba piuttosto inclinata che risalito porta sotto le rocce frastagliate del Mul 2361 m, una cengia erbosa con labili tracce lo costeggia ancora a sinistra un poco esposta per terminare uscendo a una forcelletta incantevole nelle sue fioriture. Si continua seguendo la cresta a blocchi verso ponente, mai esposta e con qualche divertente passaggio in arrampicata fino in vetta, da dove la vista si estende a giro d’orizzonte sulle Dolomiti maggiori come sulle vicine più selvatiche vette di San Lucano. Al ritorno si ripercorre lo stesso tragitto, il primo grado si trova solo sulla paretina iniziale, disl. 1450 m, Luglio 2006.
Croda Cimoliana (2408 m) – L’ambiente incontaminato della parete Est
La Cima è un’elegante pala di dolomia compresa fra la Val Montanaia e quella del Monfalcon di Cimoliana, a Nord la forcella Cimoliana stessa la divide dal Monfalcon di Montanaia e digrada verso la Val Meluzzo prima con l’appuntito Campanile Pordenone e in seguito con rilievi minori. Anche la via comune non è facile presentando difficoltà di un buon secondo grado. Nel complesso quanto poco frequentato versante Est gli alpinisti friulani G. Bianchini e M. Micoli nel 1952 vi hanno trovato una via di 3° e 4° grado e dislivello di 600 m, proprio quella che mi propone il più esperto Giovanni, Zuan per gli amici nel mio primo anno di arrampicata. Coinvolgo nella trasferta, che prevede il pernottamento al rifugio Pordenone, ben quattro dei miei più vecchi amici coetanei e compaesani, uno di loro si porta pure il figlio, vogliono andare a vedere il famoso campanile. Il mattino seguente noi due alpinisti partiamo presto sul sentiero che nel bosco si dirige verso Est fino alla ghiaiosa Val Monfalcon di Cimoliana che rimontiamo per tracce fino a una sorgente di fronte all’enigmatica parete, per avvicinarci saliamo a una costa di ghiaia e mughi. Anche leggendo la relazione, per dirla tutta, non ci capisco un’acca ma il compagno decide per uno sperone e fa il primo tiro di corda, ora tocca a me, a lunghezza finita una bella clessidra sopra una cengia mi offre una sosta sicura. Dopo un tempo che mi pare lunghissimo il partner mi annuncia che non riesce a passare, chiedo istruzioni sul da farsi, mi risponde di fare una doppia, dalla clessidra non arrivo al primo terrazzino e scendo cautamente fino a una piattaforma, ora vediamo se ho imparato a battere un chiodo, in caso contrario saluto tutti. Nonostante la mia scarsa fiducia tiene, riusciamo anche a recuperare la corda e scendiamo piuttosto abbacchiati all’attacco. Attraverso forcella Cimoliana raggiungiamo gli amici, la giornata finisce a tarallucci e vino più una pasta (i compari si sono portati ogni ben di Dio) con i piedi in fresco nell’amato torrente Cimoliana. Agosto 1986.
Nove anni sono trascorsi, sperando non invano. Anche stavolta ceniamo e dormiamo al rifugio, al mattino tre amici si dirigono in val Montanaia per fare il sentiero Micheluz e la Normale, gli altri quattro (con me c’è il fidato Nevio, gli altri componenti sono il Mauro che accompagna a un giovane che in falesia fa prodezze. Arriviamo al attacco salendo la gola fra due mammelloni baranciosi, entriamo in una grotta uscendone per un foro quindi saliamo il pilastrino sovrastante, III un poco friabile. Dei due camini scegliamo quello di sin. meno profondo che si scala sulla faccia destra, IV solido, poi si traversa su una cengia verso sin. fino a una forcelletta fra un gendarme e la parete scendendo qualche m sul lato opposto e attraversato un canalino superare una parete verso destra ed entrare in un ulteriore camino (3 sup). Un primo strapiombo si supera per un foro sul fondo mentre quello seguente lungo la fessura di sin, è il tratto più impegnativo, IV abbondante. Si prosegue lungamente per paretine e caminetti fino ad uscire su una cengia che si percorre verso sin. Con difficoltà calanti si sale alla cengia dove transita l’anello Micheluz, III discontinuo. Si segue questa a sin. fino a una tacca da dove ci si alza senza via obbligata per due tiri di corda. Qui una parete seguita da uno sperone sale a intersecare la via normale, dal I al III. Queste sono le mie scarne note dell’epoca per i quattordici tiri di corda, non saprei se abbiamo percorso la via di Blanchini e Micoli che d’altra parte esce in cima autonomamente, la vastità dell’ambiente e la mancanza assoluta di tracce o chiodi rendono il percorso piuttosto incerto e difficile da reperire. Qui, neanche ci fossimo dati un appuntamento incontriamo i tre pretendenti alla poco normale e depositiamo gli zaini per salire in vetta tutti assieme, guidati ora dagli ometti presenti. La cima consiste in una tozza torre circondata da roccia friabile, anche se da essa il Campanile abbia l’aspetto di un paracarro siamo al centro dei Monfalconi con la loro complessità. Il tratto più suggestivo della discesa è il percorso di cenge soffittate con le quali si esce alla Forcella Cecilia, fra la vetta e il Campanile Pordenone, qui un camino scende alle ghiaie in Val Montanaia. Il socio del Maurin dopo questa esperienza traumatica si è dedicato completamente all’arrampicata sportiva. Luglio 1995.
Per la relazione della Via Micoli consultare il Berti, Dol. Or. – Vol. II – Ed. CAI-TCI
Grossglockner (3797 m) – una nobile cima di tipo occidentale
Proprio in questo mese ricorre il 30° anniversario della salita che è stata la mia prima su una grande montagna di neve e ghiaccio, la più alta e ambita dell’Austria. Il tempo non è stato clemente con il nostro gruppetto, le due componenti femminili, Emanuela e Paola sono passate a migliore vita da molti anni e qualche tempo fa anche Luigi (Il Mestri) se ne è andato in silenzio. Diego si è ritirato dall’alpinismo per raggiunti limiti d’età ma collabora al recupero di vecchi sentieri nella sua Forgaria, Carlo che è stato il nostro capogita in questa occasione, dopo aver messo su famiglia è sparito. Resta Ernesto (Il Cjargniel) che incontro a volte casualmente nelle sue terre d’origine. Optiamo per l’approccio da Sud, da Lienz seguiamo in direzione NO la valle dell’Isel fino a Huben dove svoltiamo a destra in direzione di Kals dove una strada a pedaggio termina presso la Luckner Haus, un alberghetto a 2227 m di quota e da dove appare piuttosto impressionante la nostra meta. Due ore ci vogliono per raggiungere il rifugio Studl (2802) percorrendo fra torrenti nevai e fiorellini il sentiero che risale la Kodnitztal. Dopo una notte insonne dovuta al pensiero di cosa ci aspetta il giorno seguente o forse alla cucina e birra del nostro ostello prima del sorgere del sole siamo pronti, per prima cosa si sale su una dorsale detritica verso N (sentiero) per scendere sull’altro versante al ghiacciaio Kodnitz, poco ripido e senza crepacci. L’aria frizzante del mattino gioca un brutto scherzo al mestri che diventa verde, per ripararlo dagli sguardi indiscreti degli altri alpinisti mentre espleta i suoi bisogno prendiamo esempio da non so quale Re di Francia che alla vigilia di una battaglia per intrattenersi con la regina si fece scudo dei suoi soldati. Riprendiamo la salita, verso l’alto ci si sposta sulla rocce di destra per evitare i crepacci e infine si arriva al Nido d’Aquila (Adlershue) 3454 m. Qui si inizia a fare sul serio e inauguro fieramente i miei ramponi a dieci punte, resta il dilemma delle cordate, Carlo è l’unico ad aver frequentato un corso roccia (in premio si è someggiato la corda da 40 m), in più disponiamo di un cordino lungo una ventina, questa viene messa a disposizione mia e del cjargnel che non avendo alba di nodi, assicurazioni e manovre varie preferiamo lasciare nello zaino. Gli altri cinque si legano tutti assieme, Carlo primo e Diego ultimo, le ragazze nel mezzo con delle asole, richiesto al mestri di assicurarsi questi passa un moschettone sulla cavezza scorrevole a mò di ferrata, risolti più o meno i problemi attacchiamo il pendio che piuttosto ripidamente sale alla cresta. La giornata stupenda comporta anche un certo affollamento, la cresta sottile ed esposta presenta delle belle cornici verso Nord, ci sono anche dei lunghi fittoni in ferro per l’assicurazione ma a questo punto procedendo slegati stacchiamo gli amici e arriviamo sopra la temuta Glockhnerscharte, l’intaglio che separa il Klein dal Gross e dove troviamo un ingorgo, gente che va e gente che viene e si passa uno alla volta, ci sediamo attendendo pazientemente il nostro turno. Inaspettatamente quando viene sono spariti tutti, la sella è un filo di rasoio o poco più (verso N precipita il canalone Pallavicini, tentato in seguito e fallito per il maltempo, siamo riusciti a malapena a ridiscendere dal Bivacco), poi si scala l’ultima paretina di gneiss rossastro solido, sono pochi metri di 2° e usciamo in vetta che per il momento è deserta, il panorama non occorre neanche dirlo è dei più celebrati, poi arrivano anche gli amici, le congratulazioni e poi la discesa che si svolge sulla stessa via, irresponsabilmente né a me né al mio degno compagno viene l’idea di usare la corda, ma infine per fortuna rientriamo tutti interi alle rispettive magioni.
9 Luglio 1983
Cinque anni dopo ritorno alla Studl Hutte più preparato, con me ci sono, oltre a uno storico amico dei tempi andati due freschi reduci del corso di alpinismo, due cordate quindi, in programma c’è la Studl Grat ovvero Cresta S interamente rocciosa e munita di chiodi di sicurezza, al mattino dopo se verso S e le lontane Dolomiti risplende il sole mentre cupi nuvoloni ammantano la cima imbiancata da neve fresca. Ci portiamo sulla dorsale sopra al rifugio percorrendola tutta fino all’attacco dove la visibilità è ridotta a pochi metri e spira pure un gelido vento. All’epoca ero il più forte della compagnia e a me tocca decidere se partire o meno, alla fine prevale la prudenza e dirottiamo alla via normale già conosciuta. Ove possibile ci caliamo sul ghiacciaio dell’ opposto versante raccordandoci alla pistata via comune che oggi non soffre del consueto affollamento. Il rifugio Erzherog Jhoann e rivestito da cristalli di ghiaccio e inaspettatamente rivediamo il sole, sulla cresta a differenza della salita precedente adottiamo le misure di sicurezza e la salita si conclude felicemente in sette ore e mezza. In discesa alla fine del ghiacciaio la neve molla nasconde un’insidiosa lastra di ghiaccio, sono senza ramponi e guanti, una scivolata mi costa un bel taglio al palmo della mano. Sono le otto di sera quando arriviamo al parcheggio. 3-4 settembre 1988. Lo spigolo rimane uno dei progetti mai realizzati.
Spitzkofel (2718 m) – ambiente bucolico per una vetta rocciosa
Negli anni dell’arrampicata ci eravamo invaghiti della bellissima cresta Nord a denti di sega di questa cima, la più elevata a Ovest del circo del rifugio Karlsbader che ha difficoltà massime di quarto superiore sulla seconda torre con Festen Fels (roccia ottima), salita che richiedeva un bivacco in un luogo improbabile che mi pare si chiamasse Wilde Badstube e la partenza dal corso della Drava 700 m, in tutto più di 2000 m di dislivello. Ormai la via è entrata nel lungo elenco dei progetti irrealizzabili, tuttavia almeno in cima e sempre in quel periodo ci sono stato percorrendo la strada più facile. L’approccio in auto prevede il Passo di Monte Croce Carnico e il successivo Gailsberg che porta a Oberdrauburg nella valle della Drava, si prosegue fino a Lienz, capoluogo dell’Ostirol. Dalla graziosa città si continua seguendo il corso del fiume verso SO fino a Leisach, poco dopo e vicino a un Gasthof un ponte a sinistra consente di varcare il corso d’acqua, al di là una forestale è percorribile liberamente fino a Klammbruchl 1104 m, un ponte sopra una gola dove si posteggia.
Seguendo sempre la strada ci si alza in un’abetaia si arriva fino a un cancello rigorosamente in legno che ci informa che stiamo entrando nel territorio della malga, ora l’ambiente varia, verdi prati e radi larici di veneranda età ci accompagnano fino al recinto della Kerchsbauer Alm-Schutzhutte 1802 m, che funge anche da rifugio. Si prosegue in direzione Ovest in un vallone insolitamente ampio limitato a Sud da una cresta molto dentellata fra vacche al pascolo e marmotte che fischiano, il posto è veramente bucolico e tranquillo, in ultimo la traccia sale traversando dei ghiaioni su buona traccia per uscire alla forcella Hallenbachtorl (2399 m), che dà accesso a un vallone con lo stesso nome. Ne attraversiamo la testata senza grosse perdite di quota poi i segni azzurri si dirigono verso una gola dove si trova l’attacco della nostra via. Salgono sulla destra, nonostante l’aspetto poco rassicurante la roccia è discreta con saltuarie attrezzature nei tratti che impegnano di più ma senza i passi atletici cui ci hanno abituato alcune nostre vie ferrate. Si esce all’anticima dove si trova la Linder Hutte (2683 m), un bivacco in muratura piuttosto malmesso, tuttavia all’occorrenza molto comodo. Una crestina ci porta sopra l’intaglio che ci separa dalla vetta, scendiamo (altri cavi) e rimontato l’opposto versante siamo alla Croce che come sempre nella cattolica Austria contrassegna la Cima. Ampio panorama, bella soprattutto la conca di Lienz e i sovrastanti Alti Tauri. Scendendo non manchiamo di approfittare dell’ospitalità del rifugio, il gestore è gentile e simpatico, un vero montanaro con cappello e grembiule, ci accoglie fumando un sigaro mentre sulla burrosa figlia facciamo dei pensieri che qui non posso riportare anche (probabilmente oggi sarà una florida frau con parecchi pargoli). Ci viene offerto del formaggio che stranamente in Austria nonostante il cospicuo numero di bovini raramente si trova, un paio di birre e uno schnaps e la giornata si conclude felicemente.
Più di 1600 m di dislivello, circa 4 ore ½ per la salita, luglio 1994
Cima Ovest di Lavaredo (2973 m) – Via Normale
La prima salita alla Ovest fu nel 1879 un ulteriore trofeo della grande Guida M. Innerkofler che vi accompagnò G. Ploner nel 1879 e resta tuttora la via normale, troppo impegnativa per gli escursionisti e snobbata dagli arrampicatori che la usano per la discesa dopo avere percorso itinerari più tosti. Al contrario per noi pretendenti resta l’ultima della regale triade ancora da visitare, pertanto ci trasferiamo a Misurina e dopo aver versato il pedaggio al comune di Auronzo saliamo lungo la strada che arriva nei pressi del rifugio omonimo 2330 m dove si trova il sempre affollato parcheggio. Sono due i mezzi di trasporto essendo in otto ma solo quattro aspirano a questa vetta, gli altri hanno programmi diversi. Per la relazione il nostro Vangelo è la sempreverde guida grigia del Berti anche se qualche volta lesina un poco sulle difficoltà, oggi farò da primo a Cinzia mentre Sandron si occuperà di Vigjut (sempre gli stessi nomi), ci accodiamo alle moltitudini sulla stradina che termina verso E al rifugio Lavaredo, prima di questo ci alziamo per tracce sui ghiaioni che scendono dalle crode e subito rimaniamo soli, l’attacco si trova alla forcella della Grande che incombe con i suoi appicchi occidentali. Grande è la sorpresa quando notiamo che la via è in parte segnata con degli sbiaditi bolli rossi e ancora di più quando ci troviamo impegnati in un canalone di neve dura, forse siamo in anticipo con la stagione e una piccozza farebbe comodo e ci tocca usare la corda, alla neve segue un camino, la via prosegue discontinua in traversata ascendente verso Ovest fra terrazzi e caminetti. Quando si svolta a destra in un canale dapprima facile si trova lo scoglio della salita, una placca di pochi metri povera di appigli superiore come difficoltà al 2° promesso dal libro, da qui a un ulteriore camino più facile segue il tratto più entusiasmante della scalata per ambienti e panorami, una cengia fra fotogenici risalti con qualche gradone e a percorso sinuoso arriva all’estremità Nord dove si trova la massima quota. Impressionante la vista della Grande che appare vicinissima con i suoi strapiombi N come esemplare è il panorama su tutti i monti di Sesto e le grandi cattedrali dolomitiche, l’eccellente giornata ci consente di gustare il tutto senza fretta. La discesa si effettua per la via già percorsa, alcune calate a corda doppia sugli ancoraggi in loco fra cui una di 50 m permettono di superare i passaggi più impegnativi.
21 Giugno 1998